28 APRILE 2023
Salario minimo e Guadagno Massimo Consentito, cioè le basi da cui ripartire per un miglioramento complessivo del mondo del lavoro. E inoltre un piano straordinario per l’occupazione femminile perché le diseguaglianze di genere – in termini sia economici che occupazionali – stanno ancora lì a dimostrare che esistono dislivelli ancora troppo ampi. Ieri a Roma, in vista del 1° maggio, le ACLI hanno presentato le conclusioni della
ricerca “Lavorare PARI”, eseguita in collaborazione con IREF (Istituto di Ricerche Educative e Formative) partendo dall'analisi di oltre 760.000 dichiarazioni dei redditi presentate nel 2022 presso CAF ACLI su un totale di 1.326.573 modelli 730. Dal grande bacino di dati a disposizione, sono appunto emerse disparità che dimostrano gravi ritardi per interi settori del tessuto sociale.
Emerge ad esempio che il 15% dei dichiaranti, pur lavorando, “ha un reddito inferiore o pari a 9.000 euro. Se si considerano anche i redditi complessivi inferiori o uguali a 11.000 euro, ovvero quelli dei lavoratori poveri (
working poor), si arriva ad una percentuale di lavoratrici e lavoratori pari al 19,5%; mentre si raggiunge il 29,4% tra quanti hanno un reddito complessivo che non va oltre i 15.000 euro e che possiamo definire ‘vulnerabili’, ovvero a rischio di povertà di fronte ad un evento inaspettato o fuori dall’ordinario (una malattia, un divorzio o perfino la nascita di un figlio)”. Insomma a volte la sorte economica di un lavoratore, pur non poverissimo, può tramutarsi comunque in potenziale indigenza se messo alla prova da fattori per così dire “esterni” alla professione.
C’è poi l’eterna questione geografica cui si lega anche il cosiddetto gender-gap (la differenza fra uomini e donne). “Le donne e i residenti al Sud – scrivono le ACLI – hanno redditi più bassi. A scontare una peggiore condizione reddituale sono i residenti nelle regioni del Sud e le donne. Nel dettaglio, queste ultime sono il 21,7% delle persone che possono contare su 9.000 euro annui (gli uomini il 7,1%). Le lavoratrici che hanno redditi inferiori o uguali a 11.000 euro sono il 27,9% (gli uomini il 9,8%) e sono il 40,9% delle persone povere o comunque vulnerabili. Il 27,2% dei residenti al Sud o nelle Isole ha un reddito fino a 9.000 euro, il 33,5% arriva a 11.000 euro e, infine, il 44,4% può contare fino a 15.000 euro.
Se si considera la fascia tra i 40 e i 54 anni, cioè uomini e donne nel pieno della loro vita attiva, coloro che non superano i 9.000 euro di reddito sono il 10 per cento in più della media nazionale (19,8% rispetto al 9,8%). Tuttavia è alto il dato dei vulnerabili anche nel nord, che resta sopra un quarto del totale”. Colpisce in generale come il divario di genere, dopo i 29 anni, aumenti in modo costante: in tutte le classi di età le donne con redditi che non vanno oltre i 9.000 euro sono almeno il dieci per cento in più degli uomini e tra gli ultrasessantenni le donne con i redditi al di sotto dei 9.000 euro sono il 43,7%, rispetto al 7,2% degli uomini.
Guardando sempre alle donne, non è l’aspetto retributivo il solo a preoccupare: c’è infatti da valutare anche il quadro complessivo dei “percorsi di carriera piatti in cui è difficili uscire da una condizione di lavoro povero o di vulnerabilità. Anche il divario di genere tra i redditi percepiti tende a permanere sia che i/le dichiaranti abbiano lavorato continuativamente durante l’anno, sia che abbiano lavorato in maniera discontinua (ovvero, non per tutto l’anno). Si può, quindi, supporre che il lavoro da solo non sia sufficiente a riscattare la condizione di svantaggio delle donne e che la fragilità reddituale del genere femminile non muti considerando la condizione lavorativa delle dichiaranti”.
Ma il punto in cui le diseguaglianze reddituali si fanno più nette (in buona sostanza fra chi ha di più e chi ha di meno) è nelle fasce di lavoratori sia giovani che anziani, un po’ come una forbice che parte già divaricata, visto che il 28% dei giovani fino a 29 anni ha infatti un reddito non oltre i 9.000 euro, percentuale che poi tende ad attenuarsi in corrispondenza della fascia mediana fra i 30 e i 55 anni, per poi riacutizzarsi tra coloro che hanno più di 60 anni raggiungendo addirittura il 30,3%.
Secondo Stefano Tassinari, Vicepresidente nazionale Acli e responsabile di Area Lavoro, “serve subito un salario minimo, rendendo obbligatorio il riferimento, come già avviene in diverse norme, ai minimi dei contratti sottoscritti dalle organizzazioni maggiormente rappresentative, anche con misure d’urgenza e reinserendo la scala mobile solo come penalizzazione contro i ritardi eccessivi nei rinnovi contrattuali”. Bisogna inoltre “promuovere nelle aziende, la formazione, la partecipazione dei lavoratori oltre che tempi di lavoro migliori”.
L’altra grande sfida è quella del Guadagno Massimo Consentito (leggi “redistribuzione”), una sorta di
price cap sulle grandi retribuzioni: “Il lavoro – ha detto Tassinari – si è impoverito ed è stato reso diseguale da un eccesso di arricchimento sproporzionato. Pensiamo a manager con buone uscita 10.000 volte quelle di un lavoratore, a tanta speculazione finanziaria mai messa al centro di riforme coraggiose, a un fisco che sempre più premia i più ricchi con sconti, deduzioni e timide aliquote alle multinazionali e che in ultimo invece di combattere i paradisi fiscali cerca di imitarli”.
L’ultima grande proposta avanzata è stata infine quella di un piano straordinario per l’occupazione femminile visto che “metà delle donne sotto i 35 anni, pur lavorando, sono in condizioni di povertà o di vulnerabilità ovvero se decidono di avere un figlio, visti i costi che comporta, decidono di sedersi sulla soglia della povertà”.
(Fonte: acli.it)